Quando i docenti e il personale ATA sbagliano, la macchina disciplinare si abbatte su di loro con ferocia. Quando a sbagliare sono i dirigenti, invece, arriva solo una mail di protocollazione: nessuna responsabilità, nessuna giustizia

In un sistema scolastico come il nostro il paradosso è sotto gli occhi di tutti: di fronte a diffide, denunce e segnalazioni di fatti gravi, i dirigenti della Pubblica Amministrazione – o meglio i sistemi automatici delle PEC – rispondono con una sterile protocollazione. Un timbro digitale che certifica l’arrivo di un documento e nulla più. Nessuna analisi, nessuna responsabilità, nessuna decisione. È la burocrazia che si autoalimenta e che, come un mostro, divora il senso stesso di giustizia.

Quando invece a sbagliare sono docenti o personale ATA, il copione cambia radicalmente. Le macchine disciplinari si attivano con velocità sorprendente: contestazioni, convocazioni, procedimenti, fino all’intervento dell’UPD. Due pesi e due misure: pugno di ferro verso chi sta in basso, silenzi e archiviazioni mascherate da protocolli quando a finire sotto accusa potrebbero essere i dirigenti.

Il nodo sta tutto qui: il dirigente scolastico oggi è insieme accusatore e giudice. Una concentrazione di potere che in uno Stato democratico dovrebbe far tremare i polsi. Non c’è imparzialità, non c’è garanzia di terzietà. Spesso le decisioni di alcuni dirigenti poco illuminati nascono da antipatie personali, dalla voglia di zittire chi dissente o dalla necessità di mostrare che il quieto vivere si conquista solo chinando la testa.

E non pensiamo che gli Uffici Scolastici Regionali e Provinciali siano estranei a queste logiche. Anzi: nella maggior parte dei casi restano immobili e indifferenti di fronte a segnalazioni o denunce riguardanti i propri funzionari o i dirigenti scolastici. La risposta è sempre la stessa: una fredda mail di protocollazione. E il problema rimane lì, irrisolto.

Che scuola è quella che insegna ai propri studenti che combattere per i diritti è inutile? Che il capo ha sempre ragione, anche di fronte a ingiustizie lampanti? Che la verità è una parola buona solo per i manuali di educazione civica?

È tempo di dire basta a un sistema disciplinare monocratico. Serve una commissione terza, imparziale, composta da professionisti con solide competenze giuridiche, chiamata a giudicare tanto le mancanze lievi quanto le infrazioni più gravi. Sarebbe un modo per garantire giustizia, ma anche per liberare i dirigenti da un ruolo che non dovrebbero ricoprire e che spesso li porta a decisioni viziate e parziali.

E, soprattutto, è urgente creare un organismo indipendente che possa finalmente valutare – e sanzionare – le condotte scorrette dei dirigenti stessi. Perché la regola non scritta del cane non mangia cane non è compatibile con un Paese che si proclama civile e democratico. È invece il marchio di fabbrica di un sistema autoritario.

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