Sentenze inascoltate, pagamenti rinviati per anni, silenzi istituzionali: il personale scolastico costretto a lottare per ottenere quanto gli spetta
Lavorare per lo Stato italiano non è più un privilegio. Soprattutto, se si ha la sfortuna di vantare un credito nei suoi confronti. È questa la cruda realtà che vivono ogni giorno migliaia di lavoratori del settore scolastico, costretti a rivolgersi ai giudici per ottenere riconoscimenti economici legittimi e spesso certificati da sentenze passate in giudicato. Ma nemmeno questo basta.
Negli ultimi anni, il contenzioso tra dipendenti del mondo dell’istruzione e Ministero dell’Istruzione si è moltiplicato, con un numero crescente di cause intentate da docenti e personale ATA per il mancato pagamento di bonus, compensi accessori, indennità e altre voci stipendiali. E se i tribunali danno ragione ai lavoratori — come spesso accade — il Ministero e la Ragioneria generale dello Stato impiegano anni per onorare quanto dovuto, senza fornire spiegazioni né risposte formali.
Un titolo esecutivo ignorato
In un Paese civile, una sentenza rappresenta un atto definitivo, da rispettare e da eseguire. In Italia, invece, la vittoria legale rischia di restare solo su carta. Il riconoscimento giudiziario di un credito non si traduce automaticamente in un pagamento tempestivo. I meccanismi che regolano la liquidazione da parte degli enti pubblici restano opachi, mentre il rispetto dei termini temporali previsti dal diritto esecutivo viene sistematicamente disatteso.
Emblematico il caso delle Carte del Docente, con numerose sentenze favorevoli ai ricorrenti risalenti a luglio 2023 ancora inattuate. I fondi per la formazione professionale non sono stati accreditati, nonostante diffide, pec, solleciti. Alcuni precari attendono ancora oltre 2.500 euro.
Lo stesso vale per i compensi accessori del personale ATA e per la Retribuzione Professionale Docenti, spesso riconosciuti dai giudici ma mai versati. E non si tratta solo di crediti giudiziari: anche richieste più semplici, come il saldo di una rata stipendiale non pagata per mero errore o la correzione di voci nel cedolino, restano lettera morta.
Il silenzio come stile istituzionale
A rendere ancora più frustrante la situazione è l’atteggiamento dilatorio e silenzioso degli enti coinvolti. Le Ragionerie Territoriali dello Stato, responsabili dirette dell’erogazione, nella maggior parte dei casi non rispondono neppure alle comunicazioni ufficiali. Non ai lavoratori, non ai sindacati, non agli avvocati. Un silenzio assordante che non è solo scortesia istituzionale, ma disprezzo per la dignità e i diritti di chi lavora.
Dietro ogni credito non pagato, c’è una persona, una famiglia, una necessità. Eppure, il Ministero sembra aver smarrito il senso stesso della funzione pubblica: tutelare il cittadino, rispettare le regole, valorizzare chi lavora per lo Stato.
Il paradosso del peggior pagatore
Il caso scuola evidenzia un paradosso sempre più amaro: in Italia, il peggior pagatore è lo Stato. Una situazione che mina la credibilità dell’intero sistema pubblico e offende chi, con dedizione, svolge un lavoro fondamentale per il futuro del Paese. I dipendenti della scuola — docenti, amministrativi, tecnici, collaboratori — non chiedono privilegi, ma solo rispetto. Che inizia, banalmente, dal pagamento puntuale di quanto spetta loro per legge.
È giunto il momento di dire basta. La credibilità dello Stato passa dal rispetto per i suoi lavoratori. Ignorare le sentenze, tacere davanti ai diritti, rinviare sine die i pagamenti è un abuso. Ed è ora che le istituzioni ne rispondano.
Dario Catapano
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